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Recensione della mostra collettiva “Un’I-Dea di Donna” a cura di Mariateresa Zagone

Perché io sono colei che è prima e ultima
Io sono colei che è venerata e disprezzata,
Io sono colei che è prostituta e santa,
Io sono sposa e vergine,
Io sono madre e figlia,
Io sono le braccia di mia madre,
Io sono sterile, eppure sono numerosi i miei figli,
Io sono donna sposata e nubile,
Io sono Colei che dà alla luce e Colei che non ha mai partorito,
Io sono colei che consola dei dolori del parto.
Io sono sposa e sposo,
E il mio uomo nutrì la mia fertilità,
Io sono Madre di mio padre,
Io sono sorella di mio marito,
Ed egli è il figlio che ho respinto.
Rispettatemi sempre,
Poiché io sono colei che da’ Scandalo e colei che Santifica.
 
Inno a Iside
Rinvenuto a Nag Hammadi, Egitto;
risalente al III-IV secolo a.C.

Mostra collettiva “Un’I-Dea di Donna” a cura di Mariateresa Zagone, dedicata alla pittura figurativa femminile italiana attraverso cinque sue rappresentanti, presso gli spazi espositivi della Galleria Fabbrica 11 di Malfa (isola di Salina), dal 25 agosto – 22 settembre 2023

Su gentile concessione, pubblichiamo la recensione della mostra “Un’I-Dea di Donna” scritta dalla curatrice Mariateresa Zagone:

La mostra pone in dialogo, per la prima volta, una selezione di opere che offre una panoramica non certo esaustiva ma ampia e, soprattutto, forte e profonda sulla pittura figurativa femminile italiana attraverso cinque sue rappresentati. La scelta curatoriale, che vuole essere in primis una scelta di militanza, è stata giustificata comunque solo da corrispondenze lungo le più interessanti linee di ricerca seguite dall’arte italiana di oggi. Anni di intensa sperimentazione e ricerca personale hanno guidato Daniela Balsamo, Ilaria Del Monte, Ersilia Leonini, Jara Marzulli, Linda Sofia Randazzo a un’osservazione sempre più approfondita della figura femminile in rapporto al sé, agli altri, all’universo emotivo tradotto in pose, dettagli, oggetti e abiti di cui i corpi a volte si spogliano per diventare essi stessi protagonisti delle tele come involucri delle anime.

Le cinque artiste indagano il femminile cercando di svincolarlo dal condizionamento dell’immaginario maschile e avviano una riflessione a partire dal proprio sé attraverso una pittura che diventa campo di sperimentazione e di invenzione e, come tale, potenzialmente sovversiva. Parlare, infatti, di ciò che la donna vede e sente di sé e delle altre aiuta a porsi le giuste domande e spinge nella direzione di quel profondo cambiamento tanto antico quanto auspicabile.

Antico perché per 30.000 anni la Dea unica e sola di ogni cultura dell’Homo Sapiens è stata donna, perché solo essa sanguinava ciclicamente – in connessione intima con il tutto vivente, col ciclo della luna o delle maree – senza morire, perché solo essa dava la vita, perché solo essa poteva dare la morte con la negazione del nutrimento. Il tempo senza tempo dell’Eden biblico, dell’età dell’oro della tradizione classica, della vita che scorreva insieme a quello delle stagioni, della società che gli archeologi e gli antropologi concordano nel chiamare gilianica, tutto sommato, si è interrotto di recente (più o meno dall’età del bronzo). Quel tempo delle migrazioni dalle steppe dell’Eurasia che ha visto prevalere un modello di cesura con il ritmo della natura e della vita e che ha imposto concetti come quelli del potere, della guerra, del possesso, della sopraffazione diventati nuovi valori insieme alle armi, alla suddivisione dei ruoli e alle gerarchie sociali ha visto anche, ovunque sui cinque continenti, la sostituzione di un dio maschio che ha assorbito in sé persino la caratteristica precipua femminile, quella della creazione e del dare la vita mentre la Dea è stata relegata al ruolo sottomesso di sposa, sorella, mamma.

Non sta a me e non è questo il luogo per raccontare tutti i processi storici ormai finalmente molto ben indagati dall’antropologia, dall’archeologia, dalla sociologia che hanno portato alla società patriarcale che nel corso dei secoli ha smontato pezzo per pezzo il valore del femminile che vede i picchi maggiori in tutte, nessuna esclusa, le religioni monomaschioteiste. I millenni di totale negazione, di sottomissione, di emarginazione dalla storia e dalla cultura hanno portato la donna ad una inconscia quanto naturale svalutazione di sé che, beffa fra le beffe, si traduce oggi, molto spesso, in atteggiamenti provocatori e aggressivi che simulano la forza maschile, unico modello possibile trasmesso da cinque millenni, con la quale si copre l’insicurezza inconsapevole derivante dal non aver potuto prendere contatto con la peculiarità della forza femminile di segno totalmente opposto.

E’ stato il più devastante sacrilegio della storia. Una visione androcentrica del mondo che si è imposta con violenze inaudite, soprusi e autogiustificazioni di ogni genere, che ha inglobato ovviamente anche quella della donna, l’altro dell’uomo, l’oggetto, la sua costola, che è stata “costruita” sul pensiero maschile. Questo ha creato l’impossibilità di “auto significarsi”, condannando le donne a una ricerca continua per colmare la propria “connaturata” mancanza.

L’arte, e l’arte al femminile, possono rappresentare in questa lunga ricerca di consapevolezza una delle vie maestre in quanto intimamente legata all’ascolto del sé e in quanto energia creativa. Le protagoniste delle opere prese in esame sono donne-dee, donne in grado di percepire l’oltre, la sua vita pulsante, donne insane, grasse o avanti con gli anni libere di mostrarsi eticamente ed esteticamente imperfette e ferite oppure maghe, donne che, in un profondissimo scavo interiore fatto di dolorosa consapevolezza, tentano di ri-nascere al mondo seguendo la sacralità interiore e allontanandosi dal male gaze tossico.

Un’I-Dea di Donna” rappresentata dalle artiste Daniela Balsamo, Ilaria Del Monte, Ersilia Leonini, Jara Marzulli, Linda Sofia Randazzo

Daniela Balsamo e Ilaria Del Monte, pur con linguaggi differenti, afferiscono a quella matrice surrealista che fece, per la prima volta nella Storia dell’arte, di un gruppo coeso e fortemente teoretico, un gruppo militante soprattutto nella sua declinazione femminile.
Sulle loro tele la realtà si lega e si mischia con l’oltre in spaesanti ambienti domestici che vengono condivisi con presenze selvatiche, animali e vegetali. In esse l’inconscio e l’irrazionale, la magia e la surrealtà diventano una forma di sapere ancestrale che porta a processi di emancipazione personale.
Daniela rappresenta un femminile contraddittorio, introspettivo, sontuoso e rotondo, demodée e desabillè sospeso tra il presente e lo struggimento di ombre che affiorano da un passato nebuloso, una “strega” pittrice che apre la porta di stanze intercomunicanti in cui la surrealtà s’incarna nella magia rivendicando alla visionarietà un ruolo taumaturgico rispetto al tempo presente o, forse, rispetto ad ogni tempo presente.
La sua pittura è pirotecnica e vegetale, materica e luminosa nella rappresentazione di oggetti raffinati e di ambienti eleganti in cui si respirano atmosfere intrise di decadentismo crepuscolare, da salotto della buona amica di nonna Speranza.

Di contro le tele di Ilaria Del Monte diventano organismi fantastici di fiaba volti a scardinare gli equilibri consolidati che giocano sull’imprevisto e l’imprevedibile e aprono una finestra su ciò che per la donna in ascolto di sé è chiaro, l’interconnessione col tutto, col già accaduto e con ciò che deve ancora accadere in una logica “altra” rispetto a quella causale. L’artista, grazie a un sapiente uso della luce e del colore e, soprattutto, ad un segno lenticolare di derivazione classica mutuato dalla grande tradizione pittorica novecentesca, da vita a figurette svelte e sottili, donne o bambine, creature pensose che nascondono nel loro mondo, apparentemente fiabesco, un sogno tradito e un senso di angoscia e precarietà.

Il realismo di Ersilia Leonini indaga il mondo interiore, tormentato ed inquieto, del femminile attraverso volti e corpi, spesso nudi e sempre “imperfetti” secondo le violentissime gabbie opprimenti del male gaze; sono spesso corpi maturi, abbondanti o magrissimi, mentre le rughe sono quelle di chi, appena alzata dopo una notte insonne, si guarda allo specchio. Lo sguardo è sempre interlocutorio e gli occhi ne diventano le spie impietose che rivelano al mondo il trascorrere pur indispensabile del tempo. L’invecchiamento manifesto che nel varco attuale della storia viene considerato un periodo di declino, un tempo di perdita, diventa in queste opere un fattore doppiamente angosciante. La perdita della bellezza, che per le donne di “una certa età” è un fatto da nascondere, si accompagna a quella dell’identità e del valore sociale. La considerazione comune che l’età migliori gli uomini mentre svaluti le donne crea un ulteriore corto circuito nella percezione del proprio essere che vede da una parte la loro compiacenza, dall’altra un’angoscia senza pari coperta di bugie.

Tuttavia le donne della Leonini esprimono un graffiante e malinconico nitore erotico che risolve l’esperienza dell’essere nel mondo attraverso e dentro la pittura.

Jara Marzulli sceglie deliberatamente di escludere il punto di vista maschile concentrando il suo sguardo sulla donna, sulla maternità, sul parto, sul dolore, sulla “sorellanza”, sul suo perduto ruolo iniziatico, sulla sua sacralità.

Le protagoniste delle sue tele si accampano su sfondi neutri animati da fiori, uccelli o insetti dal forte valore simbolico. I corpi sembrano possedere la potenza di dee madri, la potenza matriarcale dell’utero che è calice conviviale, Graal contenente l’unico sangue che non è ferita e morte. E’ una pittura rotonda come un accogliente corpo femminile, carnosa come un frutto maturo, inquieta come solo può essere un soggetto che ha subito cinquemila anni di marginalizzazione e oggettificazione. La cifra stilistica è inconfondibile e coerente pur essendosi  ammorbidita nel tempo fino a giungere alla purezza lirica di ierofanie laiche in cui gli elementi fitomorfi, memori delle teatrali metamorfosi barocche, cominciano a spuntare da falangi, omeri, ciocche di capelli.

Jara, con la pittura, tende a ricucire il filo di misteri e magie ancestrali per portarli davanti agli occhi degli spettatori come un altro finale possibile alla storia del mondo.

Linda Sofia Randazzo da’ grande importanza alla presa diretta del vero e allo studio preliminare dei soggetti, a partire dalle centinaia di schizzi e disegni che ha raccolto negli anni. Dato imprescindibile della sua pittura è infatti l’importanza della percezione visiva, anche quando cattura i suoi soggetti con la fotografia. Il suo amore per la rappresentazione nasce dall’attenzione per la muta capacità dei corpi e dei gesti di esprimere ed evocare mondi sommersi di emozioni e di storie non dette.

L’immagine è determinata sempre da un disegno tagliente che chiude le figure dentro atteggiamenti e posture tanto ovvi da essere emblematici. Linda racconta una Sicilia che è densità universale attraverso un espressionismo realista che, come ogni realismo, ha la presunzione, certamente inconscia, di incidere sulla realtà, una realtà fatta di gesti meccanici, quotidiani e ripetitivi che diventano eterni. Nelle sue opere bisogna cercare l’ostinazione di una intelligenza eminentemente visiva che usa il segno per esprimere rabbia, dolore, allegria, amore ed ogni altra forma di sentimento nel comporsi di una grafica inconfondibile. L’irruenza incisa e gridata dei nudi femminili sembra apparentata a certi esiti dell’espressionismo tedesco dall’intrinseco erotismo, mentre Partanna, la marina di Mondello, le periferie palermitane, rappresentano il palcoscenico sul quale agiscono senza recitare i suoi soggetti. C’è la pinguedine delle sue donne che dopo ore dietro i fornelli, si rilassano sulla spiaggia in pose stravaccate, padrone di un tempo lento tutto siciliano, siciliane di scoglio che non si allontanano dalla sicilitudine che diventa, ancora una volta, paradigma universale.

Ironia, forse sarcasmo, forse denuncia, forse tutto insieme, forse niente.

Ho cercato di seguire, con questa mostra, la linea di ricerca di una pittura padrona dei suoi mezzi espressivi, a volte spigolosa, a volte ricercata, a volte rotonda come un accogliente corpo femminile, ma sempre inquieta come una donna consapevole che la sua dignità normativa, pur non esaustiva della dignità di genere, è labile e che la montante marea nera di un mondo patrilineare e androcentrico è in agguato e ha troppi adepti. 

Mariateresa Zagone

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